VIII

«A SE STESSO»

La tensione febbrile e romanzesca di Consalvo aveva indotto il poeta a concessioni del tutto nuove alla vita nel presupposto sognato di una realtà amorosa:

Lice, lice al mortal, non è già sogno

come stimai gran tempo, ahi lice in terra

provar felicità.

Tanto che in una ricerca di «storia di un’anima» qui si potrebbe trovare il culmine di questa passione e di questo atteggiamento affermativo, di questa trasformazione di illusioni in realtà. E questi versi potrebbero mettersi a preludio di A se stesso per indicare nella maniera piú rude il contrasto, la caduta definitiva dei «cari inganni».

Ma lontano dalla volontà di una descrizione psicologica, intendo la vicinanza di Consalvo e A se stesso come utile indicazione per contrasto della natura inferiore ed estetizzante del primo e di quella altamente lirica del secondo.

Dopo tanta abbondanza di suono e di sentimentalismo, di situazioni suggestive, di cadenze patetiche, la nudità scabra, il ritmo austero dei 16 versi del nuovo canto ci riportano quasi con bruschezza al mondo e alla poetica leopardiani nella loro maggiore serietà.

Cercare la causa immediata del canto nei suoi particolari è fare inutile cronaca, ma è altrettanto astratto ignorare il legame che in sede di costruzione poetica assicura a questo canto l’appoggio di un avvenimento interiore, di un pretesto cosí vitale e personale che ogni autobiografismo svanisce (l’autobiografismo cosí minuto in Consalvo) e tutte le parole sono cariche di una decisione senza compensi sentimentali, senza rifugi di fantasticheria. Perché sarebbe sí esteriore concludere dal dato autobiografico (crollo del mito Fanny) per una disperazione lucida e fredda e per una poesia gelida o «singhiozzante»: sotto queste brevi frasi resiste una forza, un possesso personale non distrutti dal disprezzo amaro (te, la natura ecc.) e che dà a questa poesia un carattere sempre combattivo, affermatore del valore contenuto nella estrema coscienza della verità contro ogni sogno, contro ogni compenso quale ora poteva apparire ciò che era stato cantato e sentito come realtà inseparabile dall’energia personale con cui veniva affermata.

La «persuasione» che è il tono di questo periodo è divenuta sempre piú intima, sempre piú certa in un colloquio romantico con il «cuore» che è chiamato a chiudersi in una protesta assoluta fuori di ogni «retorica» contro l’essenziale nemico del sentimento umano: «il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera». Nello stesso periodo e probabilmente poco prima di A se stesso (non certo prima di Amore e Morte come pensa il Levi) ma ricco di fermenti che frutteranno nella Palinodia e fin nella Ginestra, fu scritto l’abbozzo dell’inno ad Arimane: avvío piú chiaro a quella rivolta «titanica» (ma la parola è retorica per il Leopardi)[1] che sulla linea del pessimismo settecentesco illuministico e preromantico e sull’accentuazione romantica dalle battute del Prometeo goethiano a quelle del Caino byroniano verso accenti sempre piú aspri e scoperti[2] giunge nel Leopardi ad una giustificazione piú intima, alla sua massima profondità come il cosiddetto «mal du siècle» trova nel Leopardi la sua spiegazione e la sua massima resa poetica. In lui che aveva consumato la cultura illuministica nella sua esperienza romantica ed aveva saputo mantenere cosí nel fuoco piú puro una linea attenta e razionale, lontano dalle grandi sintesi idealistiche che non ebbero comunque un equivalente poetico cosí profondo.

In A se stesso le espressioni di invettiva si sono fatte essenziali e lo sfogo dell’abbozzo («ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà»[3]), le mosse energiche («ma io non mi rassegnerò») rotte dal grido finale e quasi inatteso («Non posso, non posso piú della vita»), il cumulo di qualifiche di Arimane

(Re delle cose, autor del mondo, arcana

malvagità, sommo potere e somma

intelligenza, eterno

dator de’ mali e reggitor del moto)

si trasformano in pochi movimenti ripetuti nel loro ritmo implacabile.

La lettura dell’abbozzo dell’Inno non fa cosí che rinsaldare l’impressione altissima di A se stesso, cosí concentrato e pur complesso, e insieme indica bene il suo atteggiamento non di rifiuto dolente, ma di condanna e di affermazione implicita di un valore personale sia pure in quanto forza che permette quella condanna e quel distacco da un disvalore.

Ogni alito sensuale o di languore scompare e la lirica si muove purissima, senza scena, senza suggestione immaginosa, sí che lo stesso motivo dell’ultimo inganno amoroso è cosí scevro e intollerante di particolari da assumere il tono di una sventura universale, di un crollo non patetico in un silenzio infinito.

Mentre nel Consalvo ogni parola, ogni mossa erano pregne di riferimenti ad un’avventura sognata, qui tutto si riduce ad un distacco da ogni forma di sogno con una sobrietà che poté apparire alla maggioranza dei critici prosastica o epigrafica, raggelata e scheletrica. In realtà manca quel gelo che si fa ironico in tanto Leopardi delle Operette e in certi momenti dei Canti, e c’è al suo posto un tono assoluto e interiormente fremente. Il disprezzo della nuova poetica per il quadretto, per il paragone immaginoso, per la cadenza sensuosa e cantata, qui si è intensificato e si è accordato con una forza di concentrazione mai ottenuta dal Leopardi con tanta violenza.

Le brevissime frasi non sono rapprese e scarnificate, ma rappresentano forti slanci contenuti da una forza stilistica superiore, unificati in una linea non adagiata che li salva da una prosastica ed epigrafica solitudine, cosí romantica come è, cosí lieta delle pause energiche in cui si rinforzano i nuovi inizi, dei silenzi profondi, della potenza di una parola bloccata quasi in una sorta di sintassi raccorciata e gigantesca: «Perí».

Procedimento lirico, non di effetto drammatico come potrebbe apparire ad una lettura troppo psicologica. Il ritmo nettamente ascendente in tutti i membri, indica la natura non statica di movimento contenuto, e le spezzature che non lasciano intatto quasi nessun verso (e per esempio al verso 10 la «e» congiuntiva è piú che altro una pausa accentuata dopo il punto e virgola) sono slanciate da alcuni poderosi enjambements tra cui spicca il larghissimo: «assai / palpitasti». Tanto che il poeta sembra volere colmare gli spazi tra verso e verso e formare dei versi ideali oltre la misura reale dei settenari e degli endecasillabi da spezzare poi in una unica linea a cui collaborano con energia iniziale e con tensione estrema mosse ripetute sempre piú intense: l’esempio piú ardito della nuova poetica, l’antiidillio per eccellenza.

L’inizio è una esortazione al cuore che sembra la conclusione di precedenti meditazioni giunte alfine al distacco di un nuovo presente da un passato di tormento e di incertezza: Or, un altro di questi avverbi di tempo (e piú in là: per sempre, omai, l’ultima volta, omai) che in questi canti rilevano la nuova realtà con cui il poeta si identifica respingendo il passato come momento inferiore nella stessa posizione forte della paroletta temporale. Avverbi che già dicemmo particolarmente indicati per un risultato di tono severo e nudo, poco sensuoso, proprio di questa poetica. E certo l’originalità di questo canto andrebbe riscontrata nel minuto calcolo di ogni parola che allontana il sospetto di una confessione immediata, come la forza musicale che lega ogni parola dall’interno ed utilizza pause e bruschi silenzi di una vita non epigrafica.

Quale ricchezza e coerenza in quella prima «unità»! Dopo l’«or» solenne ed energico (con una sfumatura dolente che si insinua nel suono eroico di tutto il movimento), una parola definitiva e sepolcrale e una espressione assoluta che portano le loro suggestioni severe (e l’incontro delle «r» non è certo casuale per un effetto solenne) in un risultato unitario a cui aggiunge nuova gravità il vocativo «stanco mio cor» con l’accento finale che rialza la cadenza di improvviso abbandono.

La seconda unità, che enuncia il dramma dell’ultima delusione, parte anch’essa da una parola carica di suggestione e di decisione nel suono aspro e nel risoluto passato remoto: «perí», e si allarga in parole ampie e assolute: estremo, eterno, calando in una espressione intensa, ma complessa: «io mi credei».

Ma subito una terza unità sorge da questo silenzio teso e tragico a ribadire con un suono tra grave e squillante – con una ripetizione subito fermata al suo inizio e tanto piú esplosiva e suggestiva – una verità indiscutibile della cui forza si nutre la parola che la enuncia.

Il quarto movimento alterna alla parola isolata che precede una maggiore complessità che prepara poi un seguito di moti brevi e violenti: un ampliarsi sintattico che pare preludere a piú lunga soluzione e una chiusa triste e senza enfasi («non che la speme, il desiderio è spento»).

Poi subito dopo due movimenti di uguale brevità in cui dal consiglio si passa al comando piú diretto («posa per sempre») e si inizia con il bellissimo «Assai / palpitasti» – cosí vasto e allargato da quella luce di vocali che splendono su gruppi consonantici omogenei – una serie di membretti affermativi ricchi di pause dovute al verso e alle parole che fermano con la loro assolutezza il procedere del verso: «cosa nessuna» (in cui tutto il miracolo di tensione è ottenuto ponendo la parola «nessuna» in fine di verso), la «terra», parola scura senza aggettivi (si noti l’estrema povertà di aggettivi in questa parte del canto), a indicare nella sua dura materialità una natura contrapposta per ciò stesso ai «moti e sospiri» del cuore: parole essenziali a designare tutta la nobile vita sentimentale leopardiana.

Ugualmente risoluti e senza ornamento i sostantivi che indicano la vita e il mondo: le parole essenziali dell’esperienza leopardiana attribuite da questa alla situazione umana con una fermezza maggiore che mai e al solito parole che nella loro nudità, nel loro valore emblematico, vivono musicalmente in una struttura di accenni a slarghi pur nella tecnica di membri brevi ed energici e in riprese piú stringate e martellate:

T’acqueta omai.

Dispera – l’ultima volta

in cui si duplica un procedimento di imperativi appoggiati sull’avverbio temporale definitivo e si riapre piú diretto il colloquio al cuore.

L’ultima frase, la piú lunga del canto, sembra sfuggire alla costruzione generale, mentre anche in questo movimento piú lungo e complesso, musicalmente efficacissimo come motivo conclusivo, si ripresenta la linea fratta, pausata di prima e le parole si seguono staccate e accentuate: «te, la natura, il brutto ecc.», e l’ultimo verso, dopo la svolta piú ampia precedente, ha il cupo suono grandioso di una musica ininterrotta e pure scandita in entità essenziali: «infinita, vanità, tutto», legate sí dal ritmo finale solenne, quasi da organo, ma piú dall’intima forza che urge in ognuna di esse accostandole per la loro vastità, per la loro pienezza incisiva.

Mai il Leopardi aveva raggiunto una espressione cosí romantica, un discorso lirico cosí nuovo, una tale coerenza di musica in cui tutte le parole del suo «dolore» sono accolte senza diluizione, in una tensione suprema e senza enfasi, tanto coincidono in una poetica unitaria ritmo e forza delle singole parole, tanto il fiore del suo pensiero è nato come poesia ed è divenuto cosí la voce della personalità leopardiana nel suo sforzo integrale. Punto estremo di questa poetica con tutti i pericoli che anche certi sublimi quartetti dell’ultimo Beethoven celano nel loro estremismo, e scambiato perciò erroneamente per prosa dura e impoetica da quanti hanno visto in Leopardi quasi una mescolanza altissima di Arcadia e di Ossian anche dopo la grande esperienza poetica in cui quei termini letterari si erano trasvalorati nella grande musica idillica.


1 Tuttavia è chiaro che nell’approssimazione di ogni ritratto del “titanismo” romantico l’esperienza leopardiana è essenziale ed è perciò che io lamentai la trascuranza del Černý (Le titanisme dans la poésie romantique, Prague 1935) nella recensione che ne feci sul «Leonardo» del 1937.

2 Si vedano nella mia Vita interiore dell’Alfieri, Bologna 1942, le pagine del cap. I che delineano questa corrente romantica.

3 Opere, a c. di F. Flora, I, p. 434.